Un paio di settimane fa, sotto un sole stranamente caldo per il periodo, si è svolta a Milano la quinta edizione di Book Pride, la fiera nazionale dell’editoria indipendente. Tra i tanti motivi di interesse, quello che mi ha spinto fuori di casa nonostante una condizione fisica precaria è stato senza dubbio la presenza di Guillem López, venuto in Italia per presentare Ventuno, il suo nuovo romanzo. Il suo precedente romanzo, Challenger edito da Eris, è stato un rivelazione, una di quelle storie – o meglio, un collage di micro-storie – che continua a risuonare ancora diversi mesi dopo aver chiuso l’ultima pagina. Il mio obiettivo, mentre ci accomodavamo su uno spiazzo d’erba all’interno della Fabbrica del Vapore, era cercare di capire da dove arrivassero le sue storie. 

Come abbiamo già scritto nella nostra recensione, Challenger è un libro che non assomiglia a nessun altro libro. Come sei arrivato a questa letteratura, che è soltanto tua?

Poco fa stavamo parlando di Cesare Pavese, de Le città invisibili, ma della collaborazione tra Raymond Carver e Altaman per il film America Oggi. Sono tutte storie in cui sono presenti moltissimi personaggi che si incrociano, si toccano per brevissimi momenti. Anche La colmena (in italiano L’alveare), romanzo di Camilo Josè Cela, dove compaiono grosso modo 300 personaggi. È un romanzo molto dinamico, in cui queste vite si mescolano e si incrociano. Sono questi i riferimenti che mi hanno condotto a Challenger. Volevo costruire una storia che raccontasse la vita caotica, dove una serie di casualità si sommano per dare una senso nuovo alla realtà. Come nella realtà è successo al Challenger col suo incidente, una serie di piccolissimi eventi che cambiano la visione della realtà.

Non so se come me sei un appassionato dei Simpsons, ma un altro riferimento – decisamente più prosaico – che mi è subito venuto in mente è uno dei migliori episodi della serie di Matt Groening, 22 episodi a Springfield, fatto di piccole scheggie narrative che una dopo l’altra realizzano il miglior ritratto della cittadina in cui vivono Homer e gli altri.

(Ride. Non credo lo sia) No, non conosco l’episodio, ma sì, il meccanismo narrativo da come me lo descrivi è quello, dove multiple realtà formano un’unica realtà, come la nostra società atomizzata è composta di individualità. Però no, non conosco quell’episodio dei Simpsons. (Ride ancora.)

Al di là del riferimento, la riduzione di senso a cui avevo ricondotto il tuo romanzo è “Shit happens”, ovvero le cose (anche brutte) succedono, totalmente al di fuori del nostro controllo.

Esatto. Il Challenger  ne è l’esempio perfetto: è esploso solo 73 secondi dopo il decollo. Nel serbatoio di carburante solido sono state ritrovate in seguito micro-particelle di alluminio che a quanto pare hanno otturato una delle perdite nella fase di indagine pre-lancio, nascondendola. Il Challenger ha potuto così decollare senza problemi, poi il calore ha fatto il suo lavoro, la falla si è aperta e il velivolo è esploso. Quando ho scoperto la dinamica dell’incidente mi sono reso conto che era proprio ciò che volevo raccontare, ovvero che ci sono storie di nessuna importanza, ma che unite insieme contribuiscono a cambiare la realtà.

Quello che colgo io da questo tuo punto di osservazione è che guardare l’insieme ha poco senso, mentre è più efficace concentrarsi sulle storie degli individui che compongono la macro-storia. Mi piace come in Challenger il tuo sguardo si posi anche su personaggi minori, quasi inesistenti, che entrano ed escono dalla storia nel giro di un paio di pagine.

I personaggi emarginati, quelli che non giocano nel centro del quadro della storia, ma ai confini, ai margini, sono anche quelli più interessanti. Proprio perché riescono a muoversi nella zona grigia, dove succedono le cose più imprevedibili e inaspettate: è dove entra l’elemento fantastico, come successo in Challenger, ma anche in Ventuno, dove appunto i personaggi che non fanno parte della storia principale sono in realtà quelli che godono di più libertà e possono fare le cose più interessanti.

Durante la presentazione hai descritto Challenger come un romanzo solare, mentre Ventuno è decisamente più oscuro. È una metafora di ciò che stiamo vivendo, una conseguenza della tua perdita della speranza? In Ventuno racconti un mondo dove si lavora senza che nessuno sappia perché lo si debba fare, e mi sembra un modo perfetto per inquadrare l’oggi.

(Ride ancora) Per me in realtà non c’è distinzione tra il mondo fantastico e la realtà quotidiana. In Challenger si notava di più per il suo essere un romanzo urbano, qui la forma è cambiata, ma è comunque una forma della nostra realtà. Non ho una visione oscura del mondo che ci circonda. Sono consapevole del fatto che ci sia molta oscurità, ma non mi definirei un autore pessimista, o meglio sono un ottimista a lungo termine. Nel medio termine siamo fregati, ma sul lungo periodo ce la possiamo ancora cavare. In realtà Challenger ha un finale positivo, anche se la scelta di fare una copertina su base nera (in Italia) potrebbe aver fornito a qualcuno una chiave di lettura più negativa, un’aria più oscura. Credo che anche Ventuno, in fondo, abbia una lettura positiva, nonostante raffiguri come protagonista un personaggio negativo. Il messaggio potrebbe essere quello di non essere come lui.

Una volta fantascienza classica cercava di disegnare una traiettoria, leggere il presente e immaginare dove stessimo andando. Oggi il genere dominante è il New Weird, che metaforizza la nostra incapacità di decifrare ciò che ci sta succedendo. Qual è secondo il ruolo che si sta sobbarcando il genere fantastico oggi?

Non credo che ci sia una corrente pura all’interno del fantastico. Oggi le correnti si stanno si stanno sfumando. Vedo che anche la narrativa contemporanea generalista sta pescando molto dal fantastico. E si stanno aprendo moltissime possibilità ovunque. Vedo anche visioni non catastrofiste e credo sia positivo: ci sono ancora moltissimi ambiti dentro e fuori dal genere che dobbiamo sfruttare. Sono meno d’accordo sull’idea di cercare un fine o un ruolo: non credo che un’opera letteraria debba essere utile a qualcosa, se non per rappresentare il presente. Che in fondo è ciò che ha sempre fatto la letteratura. Philip K. Dick non era altro se non un ritrattista della sua società degli anni ‘60/’70 in USA, al di là del messaggio di lui che è passato. Però in realtà era questo, un ritrattista.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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